La storia di Moussa rappresenta una realtà comune per molte persone migranti in Italia, stretti in un dedalo di leggi che rendono difficoltosa l’integrazione e il raggiungimento di una vita dignitosa.
La morte del giovane Moussa Diarra non sarebbe dovuta mai accadere. Allo stesso modo, una nazione che si considera “civile” e “democratica” non avrebbe mai dovuto lasciare a sé stesso un ragazzo fragile, emotivamente provato, figlio di un percorso che lo ha segnato nel cuore e nell’anima. L’uccisione di Moussa nei pressi della stazione di Verona dovrebbe essere il punto di partenza per una profonda riflessione sulla realtà vissuta da molti migranti in Italia. E dovrebbe evidenziare tutte le problematiche strutturali ed istituzionali che spesso pongono questi persone in situazioni di vulnerabilità.
Il viaggio di Moussa: un destino segnato dalla precarietà
Moussa era nato a Sandiambougou, nel sudest del Mali, un paese segnato da decenni di conflitti interni e aggravato dalla presenza di gruppi jihadisti che da anni si contendono il territorio con le autorità maliane. Nel tentativo di fuggire dalla violenza, era giunto in Libia, dove era stato arrestato per essere entrato illegalmente nel paese nordafricano. In quei luoghi di prigionia, amministrati da milizie che operano sotto l’ombrello della Guardia Costiera libica – finanziata anche dall’Italia tramite accordi bilaterali – Moussa come migliaia di altre persone migranti vengono trattenuti per mesi in condizioni inumane, con torture e abusi come metodo di sottomissione e “riscatto”. Nel 2016, è riuscito infine a pagare il suo viaggio verso l’Europa, sbarcando a Lampedusa e arrivando poco dopo a Verona. Il viaggio verso la speranza sembra compiuto, ma le profonde ferite della prigionia restano con lui.
Arrivato in Italia, aveva vissuto in condizioni di estrema precarietà nonostante la buona volontà. Dopo tutti i tentativi di regolarizzare la propria situazione e trovare la tanto agognata stabilità, Moussa si è scontrato con un sistema di accoglienza sovraffollato e inefficiente, che rende arduo l’accesso a documenti e permessi necessari per costruire una vita autonoma. Come per molte persone migranti in Italia, il percorso di Moussa è stato tortuoso e segnato da incertezze: appuntamenti rimandati e documenti temporanei, ostacoli burocratici che gli impedivano di accedere a diritti essenziali come il lavoro, l’abitazione e l’assistenza sanitaria. Una situazione che ha aggravato quelle ferite mai sanate.
Un sistema che limita le vite dei migranti
La storia di Moussa rappresenta una realtà comune per molte persone migranti in Italia, stretti in un dedalo di leggi che rendono difficoltosa l’integrazione e il raggiungimento di una vita dignitosa. La precarietà ha imposto a Moussa una vita segnata da continue difficoltà e discriminazioni. Dai decreti sicurezza agli accordi con la Libia per finanziare i centri di detenzione per le persone migranti, il sistema italiano sembra infatti più orientato al respingimento che all’accoglienza di chi scappa dalla guerra. All’indifferenza piuttosto che alla protezione dei più vulnerabili.
Le parole della politica e la risposta della società civile
In reazione alla morte di Moussa – l’attuale Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini – ha dichiarato: “con tutto rispetto. Non ci mancherà.” Questa presa di posizione ha suscitato ulteriore sconcerto nella società civile, politica locale, così come nelle più alte cariche ecclesiastiche, che sostengono come il discorso pubblico e di alcuni politici sia diventato sempre più xenofobo e orientato all’incitamento all’odio.
Anche la Chiesa si è mossa in risposta all’uccisione di Moussa. In segno di solidarietà, la Diocesi di Verona ha spostato la “Preghiera giovani” – inizialmente prevista in Cattedrale- nella stazione Porta Nuova per trasformare l’evento in un momento riflessione collettiva.
Un rapporto del Consiglio d’Europa, infatti, evidenzia come i discorsi d’odio da parte di figure pubbliche, insieme alla profilazione razziale, siano fenomeni sempre più diffusi in Italia insieme all’aumentare di fenomeni di razzismo.
L’appello di MAEC
La morte di Moussa ha sollevato l’indignazione di oltre 300 persone che si sono riunite presso la stazione di Verona per chiedere “verità e giustizia”. Associazioni locali, attivisti e amici di Moussa hanno ricordato il giovane come il simbolo di un sistema che rende difficile ogni tentativo di autonomia per i migranti e quasi impossibile la loro strada verso l’integrazione. Le associazioni, incluse MAEC, continuano a sottolineare come le vite di molte persone migranti siano inevitabilmente segnate dal razzismo strutturale e dall’assenza di un reale supporto psicologico e di assistenza basilare. Questo evento dovrebbe essere una sveglia collettiva, un grido a più voci contro un sistema di accoglienza sempre meno solidale con i più bisognosi. Una società che si definisce civile non può accettare che una giovane vita spezzata passi sottotraccia.
“Dobbiamo lavorare molto all’interno della società italiana per far cadere i muri di incomprensione e stereotipi verso le persone migranti. Allo stesso tempo, è necessario inaugurare un canale di conoscenza che sia uno scambio a più direzioni.” ha dichiarato Regina Catrambone – direttrice e fondatrice del Mediterranean Aid Education Center – esprimendo le sue preoccupazioni al riguardo. “L’educazione al rispetto e alla conoscenza reciproca dell’altro è uno dei motori più potenti per favorire l’integrazione.” “Con il MAEC chiediamo che la vita e la dignità delle persone migranti vengano riconosciute e rispettate indipendentemente da dove provengano. Questa è una questione fondamentale di dignità e civiltà” ha poi aggiunto.